giovedì 25 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (8)

Al cospetto degli Dei Morti – 3 – Sulla vetta di una montagna solitaria


Vania risalì sulla Punto Van per ripartire ma prima che mettesse in moto, il suo sire Patricia le intimò di non attardarsi. Sulla musica dei Green Day la Ventrue partì freneticamente e in meno di un quarto d'ora tornò indietro, questa volta alla guida di un Fiat Ducato pur se con sempre lo stesso gruppo che usciva dalle casse dell'autoradio.

In quell'intervallo di tempo gli Accoliti avevano trucidato per soffocamento tutti i cuccioli e avevano fatto scempio dei loro corpicini pigiandoli all'interno delle raffigurazioni della Madre e del suo Amante. Quando Vania ebbe portato il furgone nella rimessa, la delicata composizione d'arte naturale venne sollevata con estrema cautela e posta nel furgone. Poi i vampiri salirono all'interno del vano posteriore. Solo Patricia si accomodò a lato della sua progenie nell'abitacolo.

Chichi scongiurò Vania di guidare decentemente almeno per questa volta, Patricia annuì con lo sguardo obliquo socchiudendo i suoi occhi freddi e malvagi. Il furgone si mosse.

Tutti gli attuali membri del Circolo della Megera, meno Attia, lasciarono il loro territorio sul Colle della Trinità, il furgone scese sulla via Trasimeno Ovest svoltando in direzione del lago affrontando un breve tratto dal traffico denso, lento e irregolare a causa degli automobilisti che rallentavano o accostavano di fronte alle prostitute disseminate lungo tutta la strada.

Superato sia lo svincolo per il raccordo autostradale sia quello per giungere alla multisala della Warner Bros di quella zona, imboccarono una rotonda e girarono a sinistra prendendo una strada in salita verso una collina che avrebbe condotto al congrega a Corciano. Vania cercò di contenersi sulle curve in salita, tuttavia la Madre e il suo Amante tremavano e ondeggiavano spesso, in un paio d'occasioni i vampiri temettero il peggio, ma il peggio sarebbe sopraggiunto solo dopo aver sorpassato Corciano, allorché la strada avrebbe iniziato a declinare verso l'Alto Tevere.

A Pieve del Vescovo il saliscendi era terminato e una larga strada a due corsie correva attraverso il pianoro parte del bacino idrografico del fiume Tevere; il paesaggio era cambiato radicalmente, scomparsi i grumi di automobili nelle arterie di asfalto e cemento impraticabili, svanito lo stagliarsi dei palazzi squadrati e spigolosi confusi nei giochi delle migliaia di lampadine arancioni, violette, azzurre e di tutti i colori delle réclame, ora c'era il buio sopra loro interrotto dalla luce fredda e pallida di una luna piccola e di qualche stella come fori nel manto di Notte, attraverso i quali penetrava il bagliore dell'Empireo. E sotto il cielo invernale correva irregolare tutto intorno più scura una macchia frastagliata con le punte rivolte verso l'alto, cime di colli arborati che circondavano la zona della Migiana, un tempo uno dei più importanti serbatoi agricoli della città di Perugia.

Mentre percorrevano questo spazio, apparve improvvisa e inaspettata l'imponenza del Monte Tezio, novecentosessanta metri di altura solitaria, distante dalla dorsale appenninica. Anche a notte fonda e senza l'aiuto di doti particolari per vedere, si notava perfettamente sua sommità, che si snodava per chilometri in direzione nord ovest completamente spoglia di alberi, in quella notte spruzzata dalle nevi cadute poco tempo prima.

Il furgone attraversò un abitato dall'insulso nome di Capocavallo e svoltò per una frazione ancora più minuscola chiamata Compresso mentre il terreno tornava a salire. A breve la pendenza sarebbe diventata molto più pronunciata, fino a presentarsi impervia e impossibile per un mezzo come un furgone; il motore avrebbe faticato a dare trazione alle ruote quando dall'asfalto si sarebbe passato allo sterrato e i pneumatici avrebbero slittato sulla ghiaia e sul fango. Probabilmente l'automezzo avrebbe terminato ingloriosamente la sua impresa impantanandosi in un qualche punto tra cerri e castagni, non aveva importanza, laddove si sarebbe fermato sarebbe stato abbandonato e per il ritorno avrebbero provveduto in un modo o nell'altro. Nessuno si dava pena dei dettagli perché anche in quel luogo i Pagani erano di casa, il monte Tezio era uno dei luoghi sacri del Circolo perugino, un santuario dei loro riti più importanti e sotto il diretto controllo della Gerofante Attia, fatto salvo un unico punto, una pendice a dirupo sul versante nord dove svettava come in una favola d'altri tempi il maestoso Castello d'Antognolla, roccaforte di nome e di fatto dell'Augusto Barone.

A un certo punto l'ansia e l'esasperazione di Chichi divennero insopportabili poiché urlava di continuo nella sua mescolanza di castigliano e italiano che si rallentasse e si facesse attenzione. Vania, stufa, fermò il furgone di fronte a una sbarra a ridosso di una casa colonica restaurata che tutti conoscevano molto bene. I Pagani scesero e sollevarono di nuovo la Madre e il suo Amante per dare inizio a un'escursione notturna in mezzo alla natura selvaggia.

Superarono la sbarra e si incamminarono su per un sentiero estremamente ripido. Seguirono la mulattiera per più di un chilometro muovendosi agevolmente grazie al fatto che nessuno respirava né accusava la fatica o il freddo. Giunsero al rudere fatiscente di un podere abbandonato e lo aggirarono nella parodia di una silenziosa processione cristiana; Patricia lasciò la testa del gruppo a Vania la quale con una roncola in mano indirizzò il piccolo gruppo in un sentiero chiuso nel fitto della macchia che lei stessa riapriva all'istante menando colpi a destra e a manca con la precisione di chi vede al buio come nel suo ambiente naturale. Dopo alcune centinaia di metri, la boscaglia si spartì naturalmente disegnando una brusca svolta a sinistra che salendo portava verso un impluvio sulla sommità del monte attorniato da rocce grigie di scaglia cinerea e cumuli di neve raggrumata.

Chichi, Valeria e Leonardo posizionarono la Madre e il suo Amante al centro della radura brulla e congelata dove l'inclinazione era più dolce, Patricia si distanziò da tutti raggiungendo una polla di neve quasi completamente cristallizzata in una lastra di ghiaccio; osservando il riflesso bluastro della luna su questa si calò i jeans sotto le ginocchia e si accovacciò. La Ventrue si graffiò tra le gambe finché non si lacerò le carni lasciando che la Vitae gocciolasse sopra la neve mentre con la mano libera frugava di lato tra l'erba appassita e il muschio alla ricerca di terra umida e fango che aggiunse alla mescolanza dei suoi ingredienti.

Raccolse nel pugno ciò che aveva ottenuto e tornò dagli altri fermandosi di fronte a Moreno che era poco più di un manichino vestito con un cappotto nero troppo leggero per il clima e l'altura e i capelli biondi scompigliati dal vento. Il Mekhet predestinato cercò di mantenere la fronte alzata, ma lo sguardo inumano di Patricia lo schiacciò facendolo sentire un miserabile, un indegno che ora con la fronte e le guance ricoperte di neve, fango e sangue di vampiro avrebbe dovuto acquistare la parvenza di un antico e spaventoso guerriero, invece sembrava solo un ragazzo dalla faccia sporca.

Patricia si pulì accuratamente le mani nei capelli di Moreno e poi osservò le altre sue Sorelle come per dire “si comincia”, ma Attia era assente e nessuno aveva un'idea precisa sul da farsi.

Dov'era Attia? Soltanto lei conosceva il Mistero fino in fondo e sapeva cosa si sarebbe dovuto fare effettivamente con Moreno nelle vesti di “uomo”. Ma questa assenza non meravigliò oltremodo gli Accoliti, non era raro che la loro incomprensibile Gerofante non si presentasse anche dopo che lei stessa aveva ripetuto i termini di un appuntamento fino alla nausea, facendo saltare tutto per ragioni che nessuno le osava chiedere. Persino questa occasione poteva essere come tante altre senonché Patricia iniziava a dare segno di nervosismo e sospetto; dentro di sé la vampira maturava a poco a poco l'idea che la sua astuta protettrice le stesse impedendo di officiare un rito potente e pericoloso, forse perché lei non era ancora pronta ad assistere alle conseguenze oppure perché Attia non era affatto immune alla gelosia per il potere.

Un rumore cadde vicino alla coterie dei Pagani attirando la loro attenzione, il fischio del vento costante e fastidioso che spazzava la cima del monte fu spezzato dallo scalpitìo di un animale a quattro zampe impegnato in un galoppo al tempo stesso impetuoso e furtivo. I vampiri non si fecero ingannare, perciò si allarmarono all'istante. Era un passo troppo pesante per Attia nella sua forma selvatica di lupa bruna e spelacchiata. Vania si allungò come una pantera nella notte acquattandosi dietro un grosso masso obliquo, il pugnale sguainato. Dall'orizzonte del terreno emerse la testa di un cane massiccio grande però quanto quella di un bue, quattro file di denti troppo numerosi, troppo grandi e troppo ricurvi per nascondersi nella bocca chiusa che sembravano pallidamente luminescenti. Avvicinandosi l'animale si scoprì maggiormente alla vista, emerse il garrese che trascinava il corpo su per la salita muovendosi allo stesso modo di un gorilla e poi tutto il resto, qualcosa a metà strada tra un canide e un energumeno che se si fosse alzato sui garretti posteriori avrebbe sicuramente raggiunto quasi due metri di altezza.

Uratha, sibilò qualcuno.

Uomo-Lupo”, espresso nella parola più verace e veritiera per riferirsi a loro.

Dal suo nascondiglio Vania staccò per un attimo gli occhi dall'essere a cinquanta metri per interrogare il suo sire. Patricia sentì lo sguardo di sua figlia posarsi su di lei ma non le fece alcun cenno, doveva ragionare in fretta sulla reazione; l'Uratha era risalito sulla costa del monte Tezio invadendo il territorio dei vampiri per una ragione ben precisa, non poteva essere altrimenti in quanto l'atto significava morte... Ma Patricia non poté prendere alcuna decisione poiché alle spalle sue e di tutti gli altri proruppe lugubre l'ululato di guerra di Attia. Voltandosi i suoi fedeli Pagani videro la lupa bruna con una larga striscia d'argento ritta sulla groppa attraversare la radura e poi videro il suo sfidante girare su se stesso e iniziare a correre. Immobili, Patricia, Vania, Chichi, Valeria e Leonardo, poterono osservare solo le prime fasi dell'inseguimento e il lupo mannaro mutare, diventare un più piccolo e armonioso lupo maschio di normali dimensioni per guadagnare in agilità e velocità nei confronti di Attia.

Immediatamente le due bestie soprannaturali scomparvero dalla visuale giù per la ripa del monte, tra gli Accoliti vi era chi voleva seguire la loro Somma Sacerdotessa pensando a una trappola preparata da quegli esseri metà mortali e metà animali, ma c'era anche chi riteneva Attia molto più che capace di tener testa da sola a un intero branco di licantropi ricordandosi le vecchie storie che parlavano della Gens Nocturna e dei Versipellis.

«Moreno, accostati alla Madre e al suo Amante, prendi le loro braccia con le mani e stringile forte fin quando i rami non ti entreranno nella carne», disse autorevolmente e senza emozione Patricia.

Leonardo dal viso imbrattato si senti per un momento completamente svuotato di energia, si mosse per eseguire l'ordine predestinato.

«Ma fin quanto non torna Attia...» Iniziò a protestare Chichi.

«Zitta», disse Patricia malvagiamente mentre i suoi occhi baluginavano d'oro sul fondo, la Parola, il Verbo perentorio della Ventrue penetrò così in profondità nella mente di Chichi che lei cadde in ginocchio senza forze. Moreno sentì il tremito della Bestia – se l'avesse lasciata andare, la sua ira lo avrebbe portato a morte certa per mano di tre Ventrue le quali, in assenza di Attia, si arrogavano della padronanza dei Misteri Antichi.

Moreno soffocò l'odio e la rabbia anche in questa notte motivato unicamente dalla speranza di sopravvivere al rituale e covare in futuro una vendetta insieme a Chichi o di essere vendicato da Chichi nella peggiore delle ipotesi. Quindi Leonando afferrò i tralci che componevano la Madre e il suo Amante con tutta la forza che aveva.

«Peskum... Anzeriates Enetu...» Iniziò a declamare Patricia fissando l'Ombra intrecciata alle figure, «Perriares Pusnaies... Preves Treplanes», continuò, era un'Ordalia; i nomi, i Veri Nomi degli Dei Morti che i vampiri Pagani si tramandavano da millenni attraverso sussurri nelle orecchie.

«Iuve Krapuvi... Ustentu Votuva... Heris... Heris...» Patricia fece una pausa più breve questa volta come per correggersi: «Heri Ukpiper!» Disse, «Triaper Ikuvina», aggiunse, «Se... Sevi...»

Moreno a braccia larghe sgranò gli occhi come un idiota, sul fondo della scena Chichi si rannicchiava per nascondere un sorriso diabolico e malizioso, era lampante a tutti che Patricia non conosceva interamente l'Ordalia; Attia poteva sembrare un vecchio rudere rincretinito ma in realtà la sua saggezza era seconda alla sua sterminata furbizia.

Valeria e Vania erano attonite, non osavano neanche pensare al loro sire coperto di ridicolo, ma avrebbero dato tutta la loro Vitae per evitare che la cosa si fosse saputa in giro. Patricia invece aveva il viso incredibilmente avvampato di sangue, le guance rosse fuoco di rabbia, strinse i pugni e con voce ancora più decisa gridò: «Marduk, signore della vittoria sugli Angeli oscuri, ricorda!

«Marduk figlio di Enkil, signore dei Maghi di Sangue, ricorda!

«Marduk, distruttore degli esseri antichi, ricorda!

«Marduk che assegnasti ai trapassati il loro posto, ricorda!

«Nel nome del giuramento che ti lega alla Gente della Notte, invoco te, presta la tua attenzione ricorda!»

Il vento aumentò d'intensità, cambiò anche la sua direzione, fu come se turbinasse dall'alto e la luna iniziò a illuminare le sagome pesanti di nubi venute come dal nulla.

Chichi lasciò scivolare la sua testa finché toccò la nuda terra con la fronte, non capiva le intenzioni della sua compagna di congrega, le apparivano cose insensate, eppure a un tratto ebbe una strana sensazione. Le nuvole temporalesche potevano nascondersi dietro a montagne altre quasi mille metri, un vento che soffi per pochi minuti può essere sufficiente a spostarle cambiando radicalmente l'aspetto dell'orizzonte. Tuttavia, quando, forse a decine di chilometri, il gorgoglio di un tuono si fece largo, sia la Toreador che la progenie del Barone notarono l'alone di una scarica elettrica brillare persistente dietro la nuvola più grande.

Patricia distese il volto in un sorriso compiaciuto come fosse un fausto presagio, poi esclamò senza pensarci: «Bälder, Baldr, Baldur degli Æsir, secondogenito di Odino e Frigg, consorte di Nanna, padre di Forseti; Phol, Balderus. Baeldæg; ignoto dio presso il sole, reso invincibile da Frigg ma ucciso con inganno da Loki e da Höðr l'inconsapevole».


Rimarrà un segreto per sempre custodito solo da quelli che in quel momento fissarono un determinato punto del cielo da un luogo altrettanto determinato, si videro tre dozzine di saette sprigionarsi tutte nel medesimo istante da una corona di nembi, precipitarono sulla terra senza alcun rumore o suono, neanche un solo tuono che sempre dovrebbe accompagnare.

Qualcosa aveva superato le leggi della natura.



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