giovedì 25 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (8)

Al cospetto degli Dei Morti – 3 – Sulla vetta di una montagna solitaria


Vania risalì sulla Punto Van per ripartire ma prima che mettesse in moto, il suo sire Patricia le intimò di non attardarsi. Sulla musica dei Green Day la Ventrue partì freneticamente e in meno di un quarto d'ora tornò indietro, questa volta alla guida di un Fiat Ducato pur se con sempre lo stesso gruppo che usciva dalle casse dell'autoradio.

In quell'intervallo di tempo gli Accoliti avevano trucidato per soffocamento tutti i cuccioli e avevano fatto scempio dei loro corpicini pigiandoli all'interno delle raffigurazioni della Madre e del suo Amante. Quando Vania ebbe portato il furgone nella rimessa, la delicata composizione d'arte naturale venne sollevata con estrema cautela e posta nel furgone. Poi i vampiri salirono all'interno del vano posteriore. Solo Patricia si accomodò a lato della sua progenie nell'abitacolo.

Chichi scongiurò Vania di guidare decentemente almeno per questa volta, Patricia annuì con lo sguardo obliquo socchiudendo i suoi occhi freddi e malvagi. Il furgone si mosse.

Tutti gli attuali membri del Circolo della Megera, meno Attia, lasciarono il loro territorio sul Colle della Trinità, il furgone scese sulla via Trasimeno Ovest svoltando in direzione del lago affrontando un breve tratto dal traffico denso, lento e irregolare a causa degli automobilisti che rallentavano o accostavano di fronte alle prostitute disseminate lungo tutta la strada.

Superato sia lo svincolo per il raccordo autostradale sia quello per giungere alla multisala della Warner Bros di quella zona, imboccarono una rotonda e girarono a sinistra prendendo una strada in salita verso una collina che avrebbe condotto al congrega a Corciano. Vania cercò di contenersi sulle curve in salita, tuttavia la Madre e il suo Amante tremavano e ondeggiavano spesso, in un paio d'occasioni i vampiri temettero il peggio, ma il peggio sarebbe sopraggiunto solo dopo aver sorpassato Corciano, allorché la strada avrebbe iniziato a declinare verso l'Alto Tevere.

A Pieve del Vescovo il saliscendi era terminato e una larga strada a due corsie correva attraverso il pianoro parte del bacino idrografico del fiume Tevere; il paesaggio era cambiato radicalmente, scomparsi i grumi di automobili nelle arterie di asfalto e cemento impraticabili, svanito lo stagliarsi dei palazzi squadrati e spigolosi confusi nei giochi delle migliaia di lampadine arancioni, violette, azzurre e di tutti i colori delle réclame, ora c'era il buio sopra loro interrotto dalla luce fredda e pallida di una luna piccola e di qualche stella come fori nel manto di Notte, attraverso i quali penetrava il bagliore dell'Empireo. E sotto il cielo invernale correva irregolare tutto intorno più scura una macchia frastagliata con le punte rivolte verso l'alto, cime di colli arborati che circondavano la zona della Migiana, un tempo uno dei più importanti serbatoi agricoli della città di Perugia.

Mentre percorrevano questo spazio, apparve improvvisa e inaspettata l'imponenza del Monte Tezio, novecentosessanta metri di altura solitaria, distante dalla dorsale appenninica. Anche a notte fonda e senza l'aiuto di doti particolari per vedere, si notava perfettamente sua sommità, che si snodava per chilometri in direzione nord ovest completamente spoglia di alberi, in quella notte spruzzata dalle nevi cadute poco tempo prima.

Il furgone attraversò un abitato dall'insulso nome di Capocavallo e svoltò per una frazione ancora più minuscola chiamata Compresso mentre il terreno tornava a salire. A breve la pendenza sarebbe diventata molto più pronunciata, fino a presentarsi impervia e impossibile per un mezzo come un furgone; il motore avrebbe faticato a dare trazione alle ruote quando dall'asfalto si sarebbe passato allo sterrato e i pneumatici avrebbero slittato sulla ghiaia e sul fango. Probabilmente l'automezzo avrebbe terminato ingloriosamente la sua impresa impantanandosi in un qualche punto tra cerri e castagni, non aveva importanza, laddove si sarebbe fermato sarebbe stato abbandonato e per il ritorno avrebbero provveduto in un modo o nell'altro. Nessuno si dava pena dei dettagli perché anche in quel luogo i Pagani erano di casa, il monte Tezio era uno dei luoghi sacri del Circolo perugino, un santuario dei loro riti più importanti e sotto il diretto controllo della Gerofante Attia, fatto salvo un unico punto, una pendice a dirupo sul versante nord dove svettava come in una favola d'altri tempi il maestoso Castello d'Antognolla, roccaforte di nome e di fatto dell'Augusto Barone.

A un certo punto l'ansia e l'esasperazione di Chichi divennero insopportabili poiché urlava di continuo nella sua mescolanza di castigliano e italiano che si rallentasse e si facesse attenzione. Vania, stufa, fermò il furgone di fronte a una sbarra a ridosso di una casa colonica restaurata che tutti conoscevano molto bene. I Pagani scesero e sollevarono di nuovo la Madre e il suo Amante per dare inizio a un'escursione notturna in mezzo alla natura selvaggia.

Superarono la sbarra e si incamminarono su per un sentiero estremamente ripido. Seguirono la mulattiera per più di un chilometro muovendosi agevolmente grazie al fatto che nessuno respirava né accusava la fatica o il freddo. Giunsero al rudere fatiscente di un podere abbandonato e lo aggirarono nella parodia di una silenziosa processione cristiana; Patricia lasciò la testa del gruppo a Vania la quale con una roncola in mano indirizzò il piccolo gruppo in un sentiero chiuso nel fitto della macchia che lei stessa riapriva all'istante menando colpi a destra e a manca con la precisione di chi vede al buio come nel suo ambiente naturale. Dopo alcune centinaia di metri, la boscaglia si spartì naturalmente disegnando una brusca svolta a sinistra che salendo portava verso un impluvio sulla sommità del monte attorniato da rocce grigie di scaglia cinerea e cumuli di neve raggrumata.

Chichi, Valeria e Leonardo posizionarono la Madre e il suo Amante al centro della radura brulla e congelata dove l'inclinazione era più dolce, Patricia si distanziò da tutti raggiungendo una polla di neve quasi completamente cristallizzata in una lastra di ghiaccio; osservando il riflesso bluastro della luna su questa si calò i jeans sotto le ginocchia e si accovacciò. La Ventrue si graffiò tra le gambe finché non si lacerò le carni lasciando che la Vitae gocciolasse sopra la neve mentre con la mano libera frugava di lato tra l'erba appassita e il muschio alla ricerca di terra umida e fango che aggiunse alla mescolanza dei suoi ingredienti.

Raccolse nel pugno ciò che aveva ottenuto e tornò dagli altri fermandosi di fronte a Moreno che era poco più di un manichino vestito con un cappotto nero troppo leggero per il clima e l'altura e i capelli biondi scompigliati dal vento. Il Mekhet predestinato cercò di mantenere la fronte alzata, ma lo sguardo inumano di Patricia lo schiacciò facendolo sentire un miserabile, un indegno che ora con la fronte e le guance ricoperte di neve, fango e sangue di vampiro avrebbe dovuto acquistare la parvenza di un antico e spaventoso guerriero, invece sembrava solo un ragazzo dalla faccia sporca.

Patricia si pulì accuratamente le mani nei capelli di Moreno e poi osservò le altre sue Sorelle come per dire “si comincia”, ma Attia era assente e nessuno aveva un'idea precisa sul da farsi.

Dov'era Attia? Soltanto lei conosceva il Mistero fino in fondo e sapeva cosa si sarebbe dovuto fare effettivamente con Moreno nelle vesti di “uomo”. Ma questa assenza non meravigliò oltremodo gli Accoliti, non era raro che la loro incomprensibile Gerofante non si presentasse anche dopo che lei stessa aveva ripetuto i termini di un appuntamento fino alla nausea, facendo saltare tutto per ragioni che nessuno le osava chiedere. Persino questa occasione poteva essere come tante altre senonché Patricia iniziava a dare segno di nervosismo e sospetto; dentro di sé la vampira maturava a poco a poco l'idea che la sua astuta protettrice le stesse impedendo di officiare un rito potente e pericoloso, forse perché lei non era ancora pronta ad assistere alle conseguenze oppure perché Attia non era affatto immune alla gelosia per il potere.

Un rumore cadde vicino alla coterie dei Pagani attirando la loro attenzione, il fischio del vento costante e fastidioso che spazzava la cima del monte fu spezzato dallo scalpitìo di un animale a quattro zampe impegnato in un galoppo al tempo stesso impetuoso e furtivo. I vampiri non si fecero ingannare, perciò si allarmarono all'istante. Era un passo troppo pesante per Attia nella sua forma selvatica di lupa bruna e spelacchiata. Vania si allungò come una pantera nella notte acquattandosi dietro un grosso masso obliquo, il pugnale sguainato. Dall'orizzonte del terreno emerse la testa di un cane massiccio grande però quanto quella di un bue, quattro file di denti troppo numerosi, troppo grandi e troppo ricurvi per nascondersi nella bocca chiusa che sembravano pallidamente luminescenti. Avvicinandosi l'animale si scoprì maggiormente alla vista, emerse il garrese che trascinava il corpo su per la salita muovendosi allo stesso modo di un gorilla e poi tutto il resto, qualcosa a metà strada tra un canide e un energumeno che se si fosse alzato sui garretti posteriori avrebbe sicuramente raggiunto quasi due metri di altezza.

Uratha, sibilò qualcuno.

Uomo-Lupo”, espresso nella parola più verace e veritiera per riferirsi a loro.

Dal suo nascondiglio Vania staccò per un attimo gli occhi dall'essere a cinquanta metri per interrogare il suo sire. Patricia sentì lo sguardo di sua figlia posarsi su di lei ma non le fece alcun cenno, doveva ragionare in fretta sulla reazione; l'Uratha era risalito sulla costa del monte Tezio invadendo il territorio dei vampiri per una ragione ben precisa, non poteva essere altrimenti in quanto l'atto significava morte... Ma Patricia non poté prendere alcuna decisione poiché alle spalle sue e di tutti gli altri proruppe lugubre l'ululato di guerra di Attia. Voltandosi i suoi fedeli Pagani videro la lupa bruna con una larga striscia d'argento ritta sulla groppa attraversare la radura e poi videro il suo sfidante girare su se stesso e iniziare a correre. Immobili, Patricia, Vania, Chichi, Valeria e Leonardo, poterono osservare solo le prime fasi dell'inseguimento e il lupo mannaro mutare, diventare un più piccolo e armonioso lupo maschio di normali dimensioni per guadagnare in agilità e velocità nei confronti di Attia.

Immediatamente le due bestie soprannaturali scomparvero dalla visuale giù per la ripa del monte, tra gli Accoliti vi era chi voleva seguire la loro Somma Sacerdotessa pensando a una trappola preparata da quegli esseri metà mortali e metà animali, ma c'era anche chi riteneva Attia molto più che capace di tener testa da sola a un intero branco di licantropi ricordandosi le vecchie storie che parlavano della Gens Nocturna e dei Versipellis.

«Moreno, accostati alla Madre e al suo Amante, prendi le loro braccia con le mani e stringile forte fin quando i rami non ti entreranno nella carne», disse autorevolmente e senza emozione Patricia.

Leonardo dal viso imbrattato si senti per un momento completamente svuotato di energia, si mosse per eseguire l'ordine predestinato.

«Ma fin quanto non torna Attia...» Iniziò a protestare Chichi.

«Zitta», disse Patricia malvagiamente mentre i suoi occhi baluginavano d'oro sul fondo, la Parola, il Verbo perentorio della Ventrue penetrò così in profondità nella mente di Chichi che lei cadde in ginocchio senza forze. Moreno sentì il tremito della Bestia – se l'avesse lasciata andare, la sua ira lo avrebbe portato a morte certa per mano di tre Ventrue le quali, in assenza di Attia, si arrogavano della padronanza dei Misteri Antichi.

Moreno soffocò l'odio e la rabbia anche in questa notte motivato unicamente dalla speranza di sopravvivere al rituale e covare in futuro una vendetta insieme a Chichi o di essere vendicato da Chichi nella peggiore delle ipotesi. Quindi Leonando afferrò i tralci che componevano la Madre e il suo Amante con tutta la forza che aveva.

«Peskum... Anzeriates Enetu...» Iniziò a declamare Patricia fissando l'Ombra intrecciata alle figure, «Perriares Pusnaies... Preves Treplanes», continuò, era un'Ordalia; i nomi, i Veri Nomi degli Dei Morti che i vampiri Pagani si tramandavano da millenni attraverso sussurri nelle orecchie.

«Iuve Krapuvi... Ustentu Votuva... Heris... Heris...» Patricia fece una pausa più breve questa volta come per correggersi: «Heri Ukpiper!» Disse, «Triaper Ikuvina», aggiunse, «Se... Sevi...»

Moreno a braccia larghe sgranò gli occhi come un idiota, sul fondo della scena Chichi si rannicchiava per nascondere un sorriso diabolico e malizioso, era lampante a tutti che Patricia non conosceva interamente l'Ordalia; Attia poteva sembrare un vecchio rudere rincretinito ma in realtà la sua saggezza era seconda alla sua sterminata furbizia.

Valeria e Vania erano attonite, non osavano neanche pensare al loro sire coperto di ridicolo, ma avrebbero dato tutta la loro Vitae per evitare che la cosa si fosse saputa in giro. Patricia invece aveva il viso incredibilmente avvampato di sangue, le guance rosse fuoco di rabbia, strinse i pugni e con voce ancora più decisa gridò: «Marduk, signore della vittoria sugli Angeli oscuri, ricorda!

«Marduk figlio di Enkil, signore dei Maghi di Sangue, ricorda!

«Marduk, distruttore degli esseri antichi, ricorda!

«Marduk che assegnasti ai trapassati il loro posto, ricorda!

«Nel nome del giuramento che ti lega alla Gente della Notte, invoco te, presta la tua attenzione ricorda!»

Il vento aumentò d'intensità, cambiò anche la sua direzione, fu come se turbinasse dall'alto e la luna iniziò a illuminare le sagome pesanti di nubi venute come dal nulla.

Chichi lasciò scivolare la sua testa finché toccò la nuda terra con la fronte, non capiva le intenzioni della sua compagna di congrega, le apparivano cose insensate, eppure a un tratto ebbe una strana sensazione. Le nuvole temporalesche potevano nascondersi dietro a montagne altre quasi mille metri, un vento che soffi per pochi minuti può essere sufficiente a spostarle cambiando radicalmente l'aspetto dell'orizzonte. Tuttavia, quando, forse a decine di chilometri, il gorgoglio di un tuono si fece largo, sia la Toreador che la progenie del Barone notarono l'alone di una scarica elettrica brillare persistente dietro la nuvola più grande.

Patricia distese il volto in un sorriso compiaciuto come fosse un fausto presagio, poi esclamò senza pensarci: «Bälder, Baldr, Baldur degli Æsir, secondogenito di Odino e Frigg, consorte di Nanna, padre di Forseti; Phol, Balderus. Baeldæg; ignoto dio presso il sole, reso invincibile da Frigg ma ucciso con inganno da Loki e da Höðr l'inconsapevole».


Rimarrà un segreto per sempre custodito solo da quelli che in quel momento fissarono un determinato punto del cielo da un luogo altrettanto determinato, si videro tre dozzine di saette sprigionarsi tutte nel medesimo istante da una corona di nembi, precipitarono sulla terra senza alcun rumore o suono, neanche un solo tuono che sempre dovrebbe accompagnare.

Qualcosa aveva superato le leggi della natura.



mercoledì 24 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (7)


Al cospetto degli Dei Morti – 2 – arte naturale

La sera successiva, poche ore dopo il tramonto, i Pagani che infestavano molti degli abbondanti casolari abbandonati sul Colle della Trinità si erano già tutti nutriti a sazietà. Ciò era una condizione indispensabile per ritrovarsi tinsieme e collaborare mantenendo al minimo i litigi e i colpi di testa improvvisi, condizione che valeva persino per la dolce Chichi e la glaciale Patricia.

Si trovavano in una specie di rimessa decentemente tenuta a poche centinaia di metri dalla casa di Chichi, una bella villa nella zona più bassa della collina. Dall'interno dell'edificio i vampiri poterono vedere un fascio di luce provenire dalla strada sterrata e colpire il vetro accompagnato dal rumore di un'auto in avvicinamento. Alcuni dei presenti si avvicinarono alla porta della rimessa e l'aprirono alzandola sulla basculante. Una Fiat Punto Van frenò di colpo poco oltre la porta, le sue luci di manovra si accesero sul posteriore e la macchina scattò dentro il garage curvando rapidamente. Il motore si spense e il posto del suo rumore fu preso da uno stereo acceso al massimo del volume. La portiera del guidatore si aprì e da questa spuntarono gli anfibi di Vania e il suo viso sadicamente allegro.

«Eccomi qua», disse, «Scarichiamo in fretta che voglio riportare l'auto a chi l'ho presa prima che si allontani troppo per cercarla, non mi va di fare troppa strada per un bel ragazzo».

Naturalmente le battute di Vania erano da tempo ignorate da tutti, praticamente da quando aveva ripreso a parlare speditamente dopo l'Abbraccio. Patricia e Vania si avvicinarono al posteriore della Punto, una delle due aprì la portiera del bagagliaio e la musica accentuò il volume inondando tutto il vano.

«Vania, spegni questa radio», ordinò Patricia.

Il pannello sulla portiera posteriore aperta sopra le teste delle vampire smise di sussultare e in quel momento, dal rock gotico si passò a ben altro genere di rumore. Nel bagagliaio della Punto erano posti quattro scatoloni di cartone che continuavano a fremere poiché v'erano dentro delle cose vive. Da una delle scatole spuntarono fuori due occhioni enormi per una testolina grande quanto il pugno di un bambino, erano neri e umidi, tremavano insieme a un paio di piccole orecchie triangolari ricoperte di pelo marroncino. Il cucciolo di cane annusò l'aria storcendo buffamente il naso roseo, poi iniziò a guaire debolmente e gli altri suoi otto fratellini lo seguirono di concerto.

Era impossibile capire se i cuccioli fossero spaventati, cercassero d'attirare l'attenzione oppure del latte, erano troppo piccoli perché i vampiri potessero penetrare nelle loro menti per apprendere qualcosa. Sicuramente erano confusi e istintivamente impauriti e a forza di frignare e agitarsi una scatola si rovesciò e uscirono tre batuffoletti morbidi e grassocci. Erano tutti bastardini tranne uno che Chichi riconobbe come un cucciolo di Labrador per via delle zampe sproporzionate e il mantello color miele.

Sorridente ed estasiata la piccola Daeva raccolse proprio il cane di razza e lo alzò in alto.

«Vanno bene», constatò Patricia voltandosi e allontanandosi dall'automobile, ma quando udì emergere tra i guaiti un uggiolare di dolore che divenne subito poco più di un sibilo, si voltò di scatto e vide Chichi, sempre sorridente con quei dentini piccoli e bianchissimi, strangolare a morte il cagnolino che subiva inerme la sua sorte.

«Ma cosa fai?» Urlò severamente la Ventrue.

Chichi lasciò il corpicino esanime sopra un ripiano: «Li mato», rispose indifferente.

«Devono morire nei corpi della Madre e del Suo Amante», le ricordò ancora più severa, quasi furente, Patricia.

«Lo se, ma ho paura que mi rovinino il lavoro se li metto dentro vivi».

Patricia serrò le mascelle, il suo volto assunse una geometria dalla bellezza ultraterrena nonché terrificante, Chichi si ritrovò un braccio stretto nella morsa della Ventrue e per un momento il suo corpo fu sollevato da terra come fosse stata un manichino, ma poi ritrovò vitalità e forza.

Vania, Valeria e Leonardo intorno alle due presero l'atteggiamento simile a quello di un branco di lupi che osserva i due più forti lottare per stabilire di chi è il comando. Patricia sapeva combattere, Attia si era dedicata a lei in passato, ma Chichi non doveva essere sottovalutata, era capace di muoversi rapida come una saetta e la Vitae per sprigionare il Vigore soprannaturale dei vampiri non le mancava.

«Fammi vedere il tuo lavoro», disse lentamente Patricia. Cambiando argomento repentinamente la Ventrue evitava il confronto diretto e ribadiva la sua autorità come seconda in potere in congrega.

Senza risponderle Chichi si districò dalla presa e massaggiandosi il braccio brunito si diresse nell'angolo in fondo alla rimessa che ospitava un confusionario insieme di scatole, bidoni, secchi, tavole di legno, teli e lenzuola. Al centro del disordine Chichi tirò via un telo di plastica verde sotto il quale c'era il suo lavoro. Erano due pupazzi a grandezza umana unici nel loro genere. Dovevano raffigurare un uomo e una donna, la Madre e il suo Amante, che seduti sopra un grosso tronco di quercia ricurvo si tenevano per le mani. Chichi aveva usato rami di cerro, di leccio, di pino e di abete per costruire le loro strutture principali, tralci di vite e di olivo più flessibili e malleabili completavano le forme e frutti secchi di lunaria, vischio e fiori di colore rosa acceso formavano i dettagli rivestendo le figure come se avessero indosso delle tuniche.

Nessun rametto, foglia o sterpo era stato tagliato da una lama, la scultura rispettava completamente i concetti dell'arte delle forme naturali a esclusione del vischio che era stato reciso con un falcetto d'oro come pretendeva l'antica tradizione pagana.

Le figure non avevano volto, Chichi aveva modellato con delicatezza e precisione le loro capigliature, sul collo della donna una ghirlanda di bacche dorate assumeva la sembianza di un monile, ma sopra questo vi era solo uno spazio vuoto che mostrava come le due statue vegetali fossero cave al loro interno così da poter accogliere i cuccioli di cane.

Chichi aveva timore che se avesse inserito i cani ancora vivi nelle sculture, questi muovendosi e agitandosi, avrebbero potuto distruggere le tante ore di lavoro trascorse graffiandosi le dita e macchiandosi le mani di linfa. I suoi compagni di congrega osservavano meravigliati il suo eccellente lavoro, Patricia vi passeggiò intorno alcuni minuti senza mostrare emozioni. A un tratto disse: «Ci sono poche rose centifolie»

«Le ho cambiate con le bouganville», le rispose Chichi.

Patricia ruotò su se stessa così velocemente che i suoi piedi sembrarono invisibili, gli occhi bene aperti a saettare d'azzurro glaciale in tutta la loro potenza.

«Oui», rispose con accento perfetto, la chioma dorata splendidamente contrastata dalla sciarpa rossa intorno al collo che portava dalla sera prima.

Chichi spinse in avanti il petto alzando il suo piccolo seno perfetto, mise le sue mani dalle unghie rosee sui fianchi dove scendeva il maglione celeste con il collo a V e rispose ancora alla progenie del Barone: «Le Rose di Provenza non si trovano facilmente in dicembre, ho dovuto faticare anche per il vischio».

Patricia avvertì l'impulso di allargare di più la scollatura del maglione di Chichi, fino a poterle strappare il cuore con le mani per lanciarlo in faccia al suo amichetto Iona; ma si accorse anche di cincischiare troppo. Tagliò corto pur volendo avere l'ultima parola: «È stato colto da mani pure?», chiese riferendosi al vischio.

«Certamente!» Rispose Chichi mentendo con evidenza.

martedì 23 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (6)


Al cospetto degli Dei Morti – 1 – il conciliabolo delle sacerdotesse

Dopo la notte in cui Moreno fallì nel rapimento del neonato a Todi, s'imbatté in Skidone e finì nuovamente massacrato, si tenne in disparte per diverso tempo. Non voleva farsi vedere da Chichi con la faccia devastata e poi non voleva parlare con lei né di quanto facessero schifo Vania e Patricia, né di quanto era incapace lui come Pagano. Ottavio e Italo erano incomparabilmente migliori nel combattimento e come agenti per missioni pericolose, lui al limite era bravo solo a prenderle.

Tramite la Gerbini era giunta a Moreno la notizia che Ottavio e Italo erano Finiti dentro la Prigione del Mostro, cioè dell'Agnus... Va be', qualsiasi cosa fosse per Moreno significava due stronzi di meno, e sperava che accadesse qualcosa di simile anche alle Sacerdotesse della Scopata cosicché Attia si ritrovasse con nessun fedele e lui se ne sarebbe potuto andare via con Chichi – sempre che Chichi fosse stata d'accordo e avesse perdonato il suo ultimo comportamento.

Una sera la Gerbini lo chiamò per avvisarlo di farsi trovare al casolare sotto il Colle della Trinità perché dovevano vedersi. Leonardo pensò che dovesse trattarsi di quella storia sui due umani che avevano ben pensato di buttare l'immondizia nel loro territorio, invece avvicinandosi all'abitazione d'aspetto abbandonato Moreno udì dei lamenti, il singhiozzare e il piangere disperato di una donna: era Chichi. Fece gli ultimi metri così velocemente da alzare le foglie e la sporcizia ovunque ed entrò nella stanza dove c'erano tutte le sue consorelle.

Attia sedeva su un cumulo di casse di legno e di plastica come fosse una grassa matrona, stringeva tra le braccia la testolina di Chichi che piangeva come una bambina inginocchiata sulla Gerofante.

«Lo siento, lo siento! Soy stata mala, malaaa...» Gridava a squarciagola la Toreador. Rialzò la testa: lacrime rosso fuoco colavano dai suoi occhi, le rigavano il volto florido e polposo come una mela candendo su Attia.

Attia la guardava maternamente, la stringeva a sé e la carezzava sul collo e sulle spalle allorché s'accorse di Moreno. L'anziana si voltò in sua direzione cambiando immediatamente d'espressione: «Lo vedi? Vedi le tue colpe quante sofferenze portano a noi tutti? Sei così perverso e malefico da non risparmiare neppure chi di più ami», gli disse.

I pensieri e le emozioni di Leonardo andarono nel pallone, non capiva assolutamente cosa accadeva a Chichi e perché piangeva.

«È colpa sua anche la Morte di Ottavio e di Italo. Hai fallito, e le Forze si sono ritorte contro di noi!» L'accusò furente la Gerbini.

Leonardo si sentì perduto: lo volevano Finito e Chichi piangeva per la sua condanna.

«Ottavio e Italo sono stati un sacrificio», mormorò Attia con il mento quasi sul petto mentre continuava a consolare Chichi che andava rilassandosi, «Il loro sangue ha nutrito la terra, il loro sangue dona forza all'Apocalissi in Sacrificio, esso spiegherà le sue ali deridendo la futile gabbia degli adoratori del dio unico».

Attia voleva liberare il Mostro? Al solo pensiero Leonardo fu colpito da un senso d'angoscia e di oppressione direttamente nel suo petto di non morto. Meglio non pensarci, meglio cercare di capire che diavolo fosse accaduto a Chichi.

«Ma che... Perché Chichi piange?» La Toreador aveva smesso, ma rimaneva tra le braccia amorevoli e screziate di fango di Attia.

«Colpa tua», disse Patricia da un angolo, fumava una sigaretta, era vestita con un impermeabile in stile Marlene Dietrich completato da una sciarpa rossa intorno al collo: «Tu non fai il tuo dovere, fallisci come un idiota e ti fai scoprire da Skydone, per giunta. La tua amica», disse muovendo gli occhi su tutti a esclusione di Chichi, «Si fa incantare e raggirare come di solito dal Divus mezzo pelato con gli occhi di smeraldo e il Magister Illuminator inizia a infastidirci. Basta?» Leonardo abbassò la testa più che colpevole.

«Se non ti basta», continuò impietosa Patricia, «Ti racconto anche di quando siamo venute a sapere dell'ingenua delazione di Chichi, e di come le abbiamo fatto presente le sue responsabilità», la progenie del Principe fece una pausa per aspirare dalla sigaretta, poi riprese sempre altera: «E lei si è prodotta in uno dei suoi stucchevoli piagnistei di fronte a Pedro il Mezzosangue. Mai confidarsi con chi beve la tua Vitae», pontificò, «Perché fanno come Pedro: s'accecano di rabbia e gelosia, prendono un paletto, presumono di poter far vendetta contro uno di Noi, poi finiscono con il collo spezzato in una via del centro».

Moreno aveva la situazione abbastanza chiara adesso: «Quanti lutti e quanta sofferenza riesci a contare?» Chiese per conferma Patricia.

Leonardo non rispose perché sul finale del discorso di Patricia, Vania si era spostata alle sue spalle per infastidirlo e lui era ancora impegnato nel tener lontano la Ventrue altamente instabile giocando al gatto e il topo qua e là per la stanza.

Patricia non badava ai giochi della sua progenie e le opinioni di Moreno o di chiunque altri non le importavano; alla Ventures interessavano solo l'obbedienza e la riverenza.

«Il rituale», disse Patricia cambiando argomento.

«Ah sì», rammentò Attia. Vania e Leonardo si interruppero immediatamente. La Gerbini si avvicinò a uno scatolone di carta pressata e iniziò a trarne fuori delle scodelle.

Patricia s'avvicinò alla sua seconda progenie e le poggiò una mano sul braccio: «Non intendevo questo rituale».

Attia con delicatezza lasciò che Chichi sedesse in terra, «Adunque quale?» Domandò insospettita.

«Devono pagare», disse in tutta risposta la vampira bionda con gli occhi saettanti.

«Sì, dai!» Proruppe Vania, «Facciamolo! Voglio vederli disperati».

Chichi e Leonardo incrociarono i loro sguardi, lei in apprensione e consapevole dell'oscura materia in discussione, lui in apprensione e basta pur sapendo che l'ultima parola spettava comunque ad Attia e che una sua decisione avrebbe potuto avere qualunque esito e qualunque significato.

«Gli astri non sono mai stati tersi, vedi tu i fratelli contro i fratelli e le madri indotte a uccidere i figli, il paese dell'uomo bruciante, devastato dalla terra stessa, la fame piaga di tutti, innocenti e colpevoli, e chi nutrirà la terra Patritia

«L'Ombra», rispose la Ventrue.

Moreno abbassò la fronte e la sua Bestia lo strinse alla gola: non ne sarebbe mai uscito se non Morto Infine. Non gli restava che sperare in Chichi e in un suo ultimo tentativo di convincere la Gerofante a graziarlo.

Invece, mentre sprofondava nella tetraggine, venne fulmineamente afferrato da Vania per i pantaloni all'altezza del cavallo.

«E ma lui è un “coso”, non è capace di fare il maschio».

Moreno cercò d'allontanare la progenie anziana di Patricia, ma lei lo strattonò con forza dal basso verso l'alto sollevandolo di peso con una sola mano.

Attia si fece nebulosa, un topo campagnolo uscì da una fessura del muro e corse a nascondersi sotto le sue gambe.

«Lo farà», disse Patricia che non accettava mai un “no” come risposta, «Tutti i Fratelli possono farlo e questo deve valere anche per lui».

Chichi, seduta sul pavimento con le gambe piegate e i talloni alle natiche intervenne: «Non puoi obbligarlo, no es giusto; se lui no puede rischi di metterlo en peligro».

Leonardo iniziò a sentirsi oltraggiato. Era terribile sentir parlare di se stessi in quei termini, specialmente in mezzo a un gruppo di sole donne.

«È un lurido verme schifoso», sentenziò Patricia, «Una perversione della Nostra gente; una cosa che non dovrebbe esistere. O lo fa o lo lascio al sole».

Di minacce Moreno ne aveva sentite tante, ma questa forse era stata la più reale tra tutte.

«Io lo aiuterò», disse Attia. Moreno avrebbe dovuto sbarrare gli occhi, sbalordirsi, dire una battutaccia; non fece niente di tutto ciò, preferiva chiuderli gli occhi per cercare di scivolare in un sonno più profondo e abbandonare l'incubo.

Patricia si mosse per portarsi di fronte ad Attia, una mano sul fianco e le spalle inflessibili: «La Vostra persona è fin troppo sacra per insozzarsi con questo», replicò.

«Mia dolce, nessuno si oppone alle mie volontà», l'accusò la Somma Sacerdotessa.

Patricia restò interdetta per qualche secondo dritta di fronte ad Attia, non si capiva bene se stesse calcolando la situazione oppure mordendo il freno della sua Bestia. Poi altro non fece che increspare le labbra prima di togliersi dalla visuale della Gerofante.

«Appropinquiamoci a nutrire la terra», esclamò Attia soddisfatta.

La Gerbini tornò allo scatolone e ricominciò a prendere le scodelle, a uno a uno i Pagani passarono da lei per farsi consegnare un recipiente unitamente a dei coltelli sporchi di ruggine, segatura e mota rappresa.

Mano a mano che i rustici strumenti religiosi venivano distribuiti tra i vampiri, loro si spogliavano completamente a esclusione di Attia. Moreno prese il suo necessaire dalle mani della Gerbini e si diresse mogio mogio in fondo alla stanza per svestirsi.

Completamente nudo si abbassò sul pavimento lurido, coperto da uno strato compatto di polvere, escrementi, humus del bosco penetrato dalle finestre rotte, insetti, parassiti morti e vivi. Si mise in ginocchio e si protese per appoggiarsi sulle mani. Alzò gli occhi, tutte le sue consorelle erano davanti a lui in ordine sparso, nude anch'esse. Culi, vulve, natiche, vagine, chiappe, fiche; la luce era quasi del tutto assente ma un Mekhet ci vedeva benissimo lo stesso. La vagina di Chichi era una fessura assolutamente liscia, divaricata quel tanto che bastava a mostrare l'interno morbido delle piccole labbra e questo a parte, le carni della Toreador non mostravano alcuna variazione di colore, intensità o consistenza; da capo a piedi lei era come avorio granato di un alone tra l'olivastro e il rosato senza soluzione di continuità, senza un segno d'imperfezione, persino al centro delle natiche piccole e tonde, il suo ano era solo un buchino tondo senza grinze.

Vania aveva la pelle come la luna, i fianchi leggermente larghi e la sua fica era nascosta da un pube fitto, nero, morbido e setoso che si prolungava in mezzo ai glutei spuntando arricciato. Il culo più grosso e leggermente sformato era quello della Gerbini, aveva quasi quarant'anni quando Patricia l'Abbracciò; inginocchiata alla mussulmana il suo sedere si apriva ampiamente mostrando per intero i genitali dalle carni confuse, più scure in punta. Quella sera Patricia si era messa nell'angolo più lontano, Leonardo poteva vederla solo obliquamente carponi e con il volto nascosto dalle sue ciocche bionde. Si ricordava però che Patricia ce l'aveva quasi uguale a Chichi, un po' più rosa e irregolare, con peli sottili, radi e dorati.

Queste non erano donne, erano dei bevitori di sangue con il potere di continuare a usare il sesso in quasi tutte le forme. Pur se non aveva più alcuna incidenza sulle loro più basilari necessità d'esistenza, nessuna era affatto intenzionata a rinunciare alla loro femminilità, anzi facevano vanto e orgoglio di possedere ancora una forza creatrice più grande di quella concessa alle donne in vita. Leonardo non era mai riuscito a comprendere questo aspetto della sua congrega, e si era rassegnato al fatto che non lo avrebbe mai capito, perciò era condannato a essere considerato un verme fin quando non avrebbe trovato un modo per sottrarsi alle umiliazioni di questa società matriarcale.

Attia dall'altra parte della stanza trascinò un pentolone dallo smalto sbeccato, lo colpì con le nocche e iniziò un canto dalle parole antiche. La voce della Gerofante scorreva sopra le teste e le schiene tese dei suoi fedeli morbida e argentina, come se fosse una giovinetta colei che decantava. Moreno aveva sentito quelle parole centinaia di volte ma non le aveva mai imparate, non riusciva ad afferrare o a distinguere una sola frase in quella sequela infinita di polisillabi, ma non era importante, a lui era richiesto unicamente di restare immobile e assolutamente silenzioso fino al gong successivo, quando avrebbe dovuto aprirsi una vena e far uscire il suo sangue nella scodella. Era così che i Pagani del Circolo della Megera “nutrivano la terra”, sopportando a denti stretti il dolore di sventrarsi il corpo e il senso di sfinimento agghiacciante che comportava la donazione della propria Vitae.

Lo facevano una, a volte due, raramente tre volte al mese, e non c'era modo di abituarsi alla sofferenza dell'atto, perché soffrire è una legge fondamentale degli Accoliti: se non soffri non sei nulla, se non soffri non conosci niente del mondo selvaggio che è la Natura e non ne fai più parte.

A quale fine fosse destinata quella mistura fredda e vermiglia una volta raccolta nella pentola scrostata della Gerofante, Moreno lo ignorava completamente. Conosceva un unico motto: “nutrire la terra” che poteva significare qualunque cosa. Si era reso conto di come il suo sangue di vampiro fosse una delle cose più potenti che esistevano al mondo. La Vitae era magia allo stato liquido, certe volte arrivava a pensare che fosse l'unica cosa viva dentro di lui, ciò che gli permetteva di esistere; una cosa, un'entità diversa in simbiosi con lui, un perenne baratto di favori e abiezioni su entrambi i fronti. Questo Moreno provava riguardo il meglio conosciuto rapporto tra l'Uomo e la Bestia, sul quale tanti Fratelli eruditi avevano costruito castelli di idee e di carta nei millenni. Ma cosa succedeva quando la Vitae era lasciata libera di essere se stessa fuori dal corpo di un vampiro?

Se l'idea di nutrire la terra di Attia era vera, ed Ella non sprecava interi litri d'inestimabile linfa stregata, scimmiottando un contadino, allora la Somma Sacerdotessa era l'artefice indiscussa del mistero più tenebroso dell'Umbria, una terra densa di magia in ogni luogo; magia creata dalla Vitae dei Pagani che nei secoli era percolata nel profondo delle profondità dei luoghi e risaliva di continuo come un mondo invisibile che avvolge il mondo degli uomini.

Tutti più o meno sapevano una cosa del genere, gli effetti della Vitae sui vivi erano notori e persino gli animali e le piante reagivano a essa in modi strani e strabilianti, ma arrivare a dire che un'intera foresta, una foresta se stante non un insieme di alberi, una città i suoi abitanti compresi, e non un insieme di case, fossero soggetti ai rituali recitati con amorose cure da Attia, faceva girare la testa e respirare per avere il controllo di se stessi, sentirsi tremare le mani invece di farsi trascinare dal senso della mostruosità.

Leonardo si era convinto di questa tesi perché gli avevano detto che niente gli avrebbero insegnato; gli Accoliti del Circolo della Megera non apprendevano assolutamente nulla attraverso i comuni tramiti della civiltà, non c'erano libri da studiare o insegnati da ascoltare, il sapere era nelle cose fatte, negli atti, nei gesti, nell'opera della Creazione. Se mai una notte Moreno sarebbe arrivato a essere lui il pontifex che collezionava la Vitae dei suoi fedeli al posto di Attia, lo avrebbe fatto diversamente da Ella, e forse anche per fini diversi. Ecco, nella pura verità, per quale motivo Moreno credeva che la Vitae servisse per dare potere alla terra e ai Pagani, era un'idea grandiosa che concedeva di scacciare quell'ombra di sospetto terrificante per la quale il sangue da lui offerto con dolore e sacrificio finisse per nutrire qualche orrore come le Nemesi, una realtà terribile di Perugia, una congrega posta fuori dalla società dei Fratelli, un nemico invisibile e sconosciuto che colpiva d'improvviso qualcuno di Loro distruggendolo col fuoco. E c'era pure un altro gruppo di Fratelli simili alle Nemesi in Umbria: la Minaccia, ancora più pericolosa delle prime. Non erano storie per spaventare, non erano sgherri dell'Augusto travestiti da cacciatori per motivi politici, erano paura allo stato puro ed era meglio non pensare ai propri anziani immischiati con loro in qualità di cause reali della miseria dei giovani, altrimenti si poteva solo finire arruolati tra i Carthiani o a osservare il sorgere del sole.

Attia batté con un mestolo il suo pentolone magico, Moreno osservò languido i riflessi del suo suo sangue ondeggiare nella ciotola mentre le sue compagne si rialzavano e completamente nude si avvicinavano alla Gerofante. Avrebbero dovuto inginocchiarsi di nuovo per deporre il liquido nella pentola e terminare il rituale.

Questa volta però accadde qualcosa di inaspettato. Patricia restò accovacciata con i talloni sotto le natiche nell'angolo più scuro della stanza. Senza dire nulla Valeria Gerbini si avvicinò a costei e raccolse la sua ciotola.

La neonata si avvicinò tremante all'Incarnazione della Megera e tutte le altre si fermarono. Attia teneva il mestolo di silver stretto in pugno, guardava le due Ventrue con un volto dai sentimenti inesplicabili. Quando gli occhi della figura scura nella penombra brillarono come due chiazze più chiare in direzione la progenie del Barone, Valeria guizzò svelta svelta verso la pentola e gettò frettolosamente il sangue.

Attia afferrò la pentola incurante e riempì il silenzio col rumore degli zoccoli di legno andandosene.

Nessuno disse niente, Moreno e le donne avevano ora troppa fame per aver voglia di discutere, ammesso che fosse possibile.

lunedì 22 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (5)

Prologo 05

In un mondo di carta patinata stampata a fotolito, quella sarebbe stata l'occasione in cui l'eroe Leonardo Moreno usciva dalle ombre per dare una lezione ai bulli, cacciandoli dal locale con la formula “questo è il mio territorio”. Purtroppo Moreno (non)vive nel Mondo di Tenebra e quelli erano tre, manifestamente violenti e molto a loro agio nella situazione, mentre lui era un neonato appena arrivato che poteva rischiare di perdere la strada per tornare al rifugio.

L'unica strategia possibile era quella di tentare di rendersi ancora più invisibile e di uscire in sordina, perché se restava lì era sicuro che quei tre Fratelli lo avrebbero scoperto. Quando uno dei due maschi calciò una sedia facendola cadere rumorosamente in terra, alcuni avventori decisero che il posto non faceva più per loro e che era meglio andarsene senza troppi complimenti, ci avrebbe pensato la polizia ai teppisti.

Moreno trovò il coraggio di scappare in quel frangente, mescolandosi alla fila sulla porta mentre dietro di lui la ragazza gotica saltava sopra il bancone dicendo non si capiva cosa al barista.

Leonardo si ritrovò a camminare speditamente sotto il colonnato di via Canali; c'erano altri locali sulla strada, forse sarebbe bastato infilare un'altra porta per seminare i tre, ma li sentì nuovamente alle spalle. Lo raggiunsero e lo affiancarono troppo velocemente perché Leonardo potesse pensare a qualunque altra strategia; poi ebbe un vuoto di memoria, i suoi ricordi tornarono a essere chiari solo a partire dalla scena in cui lui era sul sedile posteriore di un'auto, stretto tra Vania e Ottavio, e raccontava di nuovo tutta la storia del suo Requiem.

La macchina si fermò in una specie di parco a ridosso di un bosco che per Leonardo era del tutto sconosciuto. Il Gangrel Ottavio lo tirò fuori dall'auto e poi lo lasciò lì da solo con Vania.

Vania era, se si può dire, in calore come in qualunque altra occasione che le offriva un nuovo Fratello maschio tutto per lei... Inoltre Leonardo non è male pur essendo un biondino minuto col volto praticamente glabro.

Il problema però era che Ernest si era inculato Leonardo nella sua prima notte di Requiem (momento delicatissimo per qualsiasi Fratello) e gli aveva strappato via non solo una verginità ma anche ogni sensazione umana riguardo al sesso. Tanto era vero che quando Vania lo gettò prono sull'erba e cavalcioni sopra di lui s'alzò la gonna attillata senza niente sotto, Leonardo non capì le sue intenzioni.

Vania gli aprì la camicia e i pantaloni, ma si trovò di fronte un vampiro asessuato con il pisellino di un bambino, incapace di usare il sangue per diventare un vero uomo. Lei prese la cosa veramente male e ricorse a uno dei suoi coltelli preferiti per aprire il ventre di Moreno dalla punta dello sterno all'inguine. Non contenta rovistò tra gli intestini del neonato spandendoli sul terreno circostante prima d'andarsene soddisfatta in altra maniera.

Leonardo non poteva credere all'esistenza di una tortura così atroce; le sue viscere erano una matassa grigiastra uscita dal suo addome, lucide e umide rilasciavano un puzzo di putrefazione soffocante, scariche di dolore correvano dentro loro come acqua in ebollizione in una storta. Sangue non ce n'era, perché la Vitae raramente esce dal corpo, ma per usare il dono della guarigione era costretto a una scelta mostruosa: o riavvolgere tutto il gomitolo delle sue budella e rimetterselo dentro, oppure strapparle e lasciarle incenerire sul prato. Il suo inutile intestino si sarebbe rigenerato come nuovo, ma sarebbe stato comunque come estrarsi tutti i denti senza anestesia.

Molto lentamente Leonardo rialzò il busto, lo squarcio si allargò come una bocca; lui si piegò in avanti sorreggendosi sulle mani. S'accorse di ansimare e ciò aumentava il dolore, cercò di smettere ma urlò selvaggiamente allorché una fitta di dolore lo prese alle spalle. Una sensazione sottile bruciava come fuoco dentro di lui, si sentiva a brandelli. Abbassò gli occhi e vide che dal suo petto uscivano delle specie d'ossa ricurve che non era roba sua.

Sentì l'alito ghiacciato di Italo sfiorargli i capelli, gli stava dicendo cose che non riusciva a capire così assordato dal dolore com'era. Il Gangrel lo trascinò sull'erba trattenendolo con i suoi artigli ferini fino a un albero. Lì lasciò la presa per afferrare un polso di Moreno. Tirò il braccio verso l'alto e lo poggiò contro il tronco piantando un chiodo attraverso la carne e il legno, prima con la sola forza dei muscoli e poi con un martello. Leonardo non poté cercare di ribellarsi perché aveva l'intestino aggrovigliato alle gambe, l'unica cosa che poteva fare era cercare d'estraniarsi, tentare di perdere conoscenza, la morte non sarebbe stata così orrenda se la sua coscienza non sarebbe stata presente.

«Sei un'Ombra no? Se riesci a far sparire il chiodo te ne puoi andare», disse con ironia il Gangrel prima di lasciarlo da solo.

Pochi istanti dopo arrivò una cosa ancora più spaventosa: Attia. Vide questa donna sporca e coperta di stracci muoversi intorno a lui come un animale. Lei l'osservava con curiosità mentre era inerme, squartato, straziato, con una mano inchiodata al tronco di un albero. Anche Attia giocò con le sue viscere, le annusò, le leccò deliziata, gli strappò qualche dito di un piede torcendolo recitando formule inquietanti in lingue che sembravano il latino, l'italiano vecchio di secoli e altre lingue morte. Quando Attia giunse a esaminargli i genitali con la stessa attenzione di una levatrice, Moreno imparò una cosa eccezionale per un vampiro: svenire.


Riaprì gli occhi. L'albero non c'era più, era steso su una brandina in una casa fatiscente. Scattò a sedere e si toccò lo stomaco; vide la ferita chiusa da una stria brunastra, sulla mano aveva un alone dello stesso colore, ma i buchi sul petto e sulle spalle erano ancora aperti.

Prima il dolore e poi la fame. Si guardò intorno, avvertì l'arrivo di un Fratello. Entrò nella stanza una ragazza minuta in jeans e maglietta, aveva i capelli corti come un maschietto, la pelle rosa come una bambina, gli occhi scuri, il sorriso luminoso, le forme perfette; Leonardo si domandò dove fosse il vampiro, ma aveva di fronte Chichi.

Quella notte lei lo nutrì con del sangue umano, per tutte le notti successive lo nutrì con l'affetto. Se Chichi non esistesse, se Leonardo non potesse sentire le sue parole, se non potesse mai più vederla, lui andrebbe incontro al sole senza paura. Non può fuggire dai Gangrel e dai Ventrue del Circolo ed è costretto a subire le loro folli angherie facendo le cose orrende che gli chiedono, ma grazie a Chichi c'è ancora un minimo di speranza in queste notti immonde.