mercoledì 24 settembre 2008

Al cospetto degli Dei Morti (7)


Al cospetto degli Dei Morti – 2 – arte naturale

La sera successiva, poche ore dopo il tramonto, i Pagani che infestavano molti degli abbondanti casolari abbandonati sul Colle della Trinità si erano già tutti nutriti a sazietà. Ciò era una condizione indispensabile per ritrovarsi tinsieme e collaborare mantenendo al minimo i litigi e i colpi di testa improvvisi, condizione che valeva persino per la dolce Chichi e la glaciale Patricia.

Si trovavano in una specie di rimessa decentemente tenuta a poche centinaia di metri dalla casa di Chichi, una bella villa nella zona più bassa della collina. Dall'interno dell'edificio i vampiri poterono vedere un fascio di luce provenire dalla strada sterrata e colpire il vetro accompagnato dal rumore di un'auto in avvicinamento. Alcuni dei presenti si avvicinarono alla porta della rimessa e l'aprirono alzandola sulla basculante. Una Fiat Punto Van frenò di colpo poco oltre la porta, le sue luci di manovra si accesero sul posteriore e la macchina scattò dentro il garage curvando rapidamente. Il motore si spense e il posto del suo rumore fu preso da uno stereo acceso al massimo del volume. La portiera del guidatore si aprì e da questa spuntarono gli anfibi di Vania e il suo viso sadicamente allegro.

«Eccomi qua», disse, «Scarichiamo in fretta che voglio riportare l'auto a chi l'ho presa prima che si allontani troppo per cercarla, non mi va di fare troppa strada per un bel ragazzo».

Naturalmente le battute di Vania erano da tempo ignorate da tutti, praticamente da quando aveva ripreso a parlare speditamente dopo l'Abbraccio. Patricia e Vania si avvicinarono al posteriore della Punto, una delle due aprì la portiera del bagagliaio e la musica accentuò il volume inondando tutto il vano.

«Vania, spegni questa radio», ordinò Patricia.

Il pannello sulla portiera posteriore aperta sopra le teste delle vampire smise di sussultare e in quel momento, dal rock gotico si passò a ben altro genere di rumore. Nel bagagliaio della Punto erano posti quattro scatoloni di cartone che continuavano a fremere poiché v'erano dentro delle cose vive. Da una delle scatole spuntarono fuori due occhioni enormi per una testolina grande quanto il pugno di un bambino, erano neri e umidi, tremavano insieme a un paio di piccole orecchie triangolari ricoperte di pelo marroncino. Il cucciolo di cane annusò l'aria storcendo buffamente il naso roseo, poi iniziò a guaire debolmente e gli altri suoi otto fratellini lo seguirono di concerto.

Era impossibile capire se i cuccioli fossero spaventati, cercassero d'attirare l'attenzione oppure del latte, erano troppo piccoli perché i vampiri potessero penetrare nelle loro menti per apprendere qualcosa. Sicuramente erano confusi e istintivamente impauriti e a forza di frignare e agitarsi una scatola si rovesciò e uscirono tre batuffoletti morbidi e grassocci. Erano tutti bastardini tranne uno che Chichi riconobbe come un cucciolo di Labrador per via delle zampe sproporzionate e il mantello color miele.

Sorridente ed estasiata la piccola Daeva raccolse proprio il cane di razza e lo alzò in alto.

«Vanno bene», constatò Patricia voltandosi e allontanandosi dall'automobile, ma quando udì emergere tra i guaiti un uggiolare di dolore che divenne subito poco più di un sibilo, si voltò di scatto e vide Chichi, sempre sorridente con quei dentini piccoli e bianchissimi, strangolare a morte il cagnolino che subiva inerme la sua sorte.

«Ma cosa fai?» Urlò severamente la Ventrue.

Chichi lasciò il corpicino esanime sopra un ripiano: «Li mato», rispose indifferente.

«Devono morire nei corpi della Madre e del Suo Amante», le ricordò ancora più severa, quasi furente, Patricia.

«Lo se, ma ho paura que mi rovinino il lavoro se li metto dentro vivi».

Patricia serrò le mascelle, il suo volto assunse una geometria dalla bellezza ultraterrena nonché terrificante, Chichi si ritrovò un braccio stretto nella morsa della Ventrue e per un momento il suo corpo fu sollevato da terra come fosse stata un manichino, ma poi ritrovò vitalità e forza.

Vania, Valeria e Leonardo intorno alle due presero l'atteggiamento simile a quello di un branco di lupi che osserva i due più forti lottare per stabilire di chi è il comando. Patricia sapeva combattere, Attia si era dedicata a lei in passato, ma Chichi non doveva essere sottovalutata, era capace di muoversi rapida come una saetta e la Vitae per sprigionare il Vigore soprannaturale dei vampiri non le mancava.

«Fammi vedere il tuo lavoro», disse lentamente Patricia. Cambiando argomento repentinamente la Ventrue evitava il confronto diretto e ribadiva la sua autorità come seconda in potere in congrega.

Senza risponderle Chichi si districò dalla presa e massaggiandosi il braccio brunito si diresse nell'angolo in fondo alla rimessa che ospitava un confusionario insieme di scatole, bidoni, secchi, tavole di legno, teli e lenzuola. Al centro del disordine Chichi tirò via un telo di plastica verde sotto il quale c'era il suo lavoro. Erano due pupazzi a grandezza umana unici nel loro genere. Dovevano raffigurare un uomo e una donna, la Madre e il suo Amante, che seduti sopra un grosso tronco di quercia ricurvo si tenevano per le mani. Chichi aveva usato rami di cerro, di leccio, di pino e di abete per costruire le loro strutture principali, tralci di vite e di olivo più flessibili e malleabili completavano le forme e frutti secchi di lunaria, vischio e fiori di colore rosa acceso formavano i dettagli rivestendo le figure come se avessero indosso delle tuniche.

Nessun rametto, foglia o sterpo era stato tagliato da una lama, la scultura rispettava completamente i concetti dell'arte delle forme naturali a esclusione del vischio che era stato reciso con un falcetto d'oro come pretendeva l'antica tradizione pagana.

Le figure non avevano volto, Chichi aveva modellato con delicatezza e precisione le loro capigliature, sul collo della donna una ghirlanda di bacche dorate assumeva la sembianza di un monile, ma sopra questo vi era solo uno spazio vuoto che mostrava come le due statue vegetali fossero cave al loro interno così da poter accogliere i cuccioli di cane.

Chichi aveva timore che se avesse inserito i cani ancora vivi nelle sculture, questi muovendosi e agitandosi, avrebbero potuto distruggere le tante ore di lavoro trascorse graffiandosi le dita e macchiandosi le mani di linfa. I suoi compagni di congrega osservavano meravigliati il suo eccellente lavoro, Patricia vi passeggiò intorno alcuni minuti senza mostrare emozioni. A un tratto disse: «Ci sono poche rose centifolie»

«Le ho cambiate con le bouganville», le rispose Chichi.

Patricia ruotò su se stessa così velocemente che i suoi piedi sembrarono invisibili, gli occhi bene aperti a saettare d'azzurro glaciale in tutta la loro potenza.

«Oui», rispose con accento perfetto, la chioma dorata splendidamente contrastata dalla sciarpa rossa intorno al collo che portava dalla sera prima.

Chichi spinse in avanti il petto alzando il suo piccolo seno perfetto, mise le sue mani dalle unghie rosee sui fianchi dove scendeva il maglione celeste con il collo a V e rispose ancora alla progenie del Barone: «Le Rose di Provenza non si trovano facilmente in dicembre, ho dovuto faticare anche per il vischio».

Patricia avvertì l'impulso di allargare di più la scollatura del maglione di Chichi, fino a poterle strappare il cuore con le mani per lanciarlo in faccia al suo amichetto Iona; ma si accorse anche di cincischiare troppo. Tagliò corto pur volendo avere l'ultima parola: «È stato colto da mani pure?», chiese riferendosi al vischio.

«Certamente!» Rispose Chichi mentendo con evidenza.

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