Parte terza: Anchise e Monteleoni
Basile montò sull'ambulanza guidata dal Pispolo e si fece accompagnare in centro. Non pioveva più, forse era solo momentaneo, tuttavia scese a due passi da Largo Cacciatori delle Alpi, sotto lo sguardo della statua di Garibaldi.
Avrebbe dovuto fare a piedi tutto il centro storico, visto che sua Eccellenza lo aspettava in un appartamento del Rione di Porta Sole, oltre San Lorenzo, il vero cucuzzolo di Perugia. Stefano l'aveva fatto di proposito, per non lasciarsi sfuggire l'occasione di una passeggiata per tutta l'Acropoli con pronta come risposta: “cazzo vuoi? Devo andare dal Vescovo!”, per chiunque avrebbe incontrato. Si strafottessero le leggi questa sera, aveva trovato una gustosa scappatoia.
In verità Stefano Basile era profondamente convinto che le leggi del Barone non valessero un accidente, e credeva di non avere tutti i torti perché a cercare di capirle, confrontandole l'una coll'altra, si vedeva bene che altro non erano se non una serie di precetti sistemati quasi alla rinfusa. Solo perché avevano paura dell'Invictus i Fratelli rispettavano gli ordini. Pensava, addirittura, che l'Augusto stesso ignorasse gran parte delle 'sue' leggi, probabilmente neanche una era stata opera del suo cervello ottenebrato dalla muffa proliferata nei secoli. Nei fatti si credeva che l'estensore degli obblighi a cui tutti si attenevano fosse, in realtà, quel bastardo stitico di Florenzi-Baglioni, l'anziano Primogenito del clan Daeva, faccia d'angelo e cuore d'avvoltoio. Chi altri avrebbe potuto avere la sfacciataggine di trasformare una cosa seria come le regole di una società di Immortali in uno stramaledetto gioco (in più perverso). Un gioco dannato perché l'unica vera regola era quella di assecondare i mutevoli capricci degli anziani del Primo Stato, o forse addirittura solo quelli di Tommaso Florenzi-Baglioni e la sua barbetta da coglione spagnolo del Diciottesimo secolo. Stefano non aveva mai capito bene quale fosse il ruolo del suo Primogenito nella baronia perugina: Danzetta era il capo, ok; de Megnis il suo servo più fedele. Poi c'erano tutti i lacchè che si erano fatti comprare dalle perline colorate dell'Invictus. Ai Consacrati, dopo averli riempiti di botte – o di “giarde” come si dice a Perugia – nell'Ottocento, offriva ora il contentino di sbrigare compiti d'amministrazione; i Draghi erano lasciati liberi di fare quello che volevano (più o meno) solo per continuare a dar giarde ai Consacrati notte dopo notte; i Carthiani e i Pagani erano tenuti a distanza. Un meccanismo perfetto dove però non riusciva a piazzare la figura una Succube – sue parole – vecchia di duecentosessantacinque anni, schifosamente egocentrica e bastarda – cosa provata oggettivamente e testimoniata da tutti – la quale non poteva sopportare di contentarsi di essere 'solo' l'anziano, il Priscus, il Primogenito, l'unica Arpia del Dominio e Garante dell'Acropoli senza puntare a diventare Principe. Perché non lo faceva?
Stefano non sapeva rispondere alla domanda e guardando l'orologio capì che non era quello il momento di soffermarsi sulla questione e che doveva muovere le gambe sperando veramente di incontrare qualcuno, così avrebbe giustificato il ritardo.
Magari Chichi... Pensò... Ogni volta che passo per l'Acropoli mi viene di pensare a lei, al suo culetto e alle sue tettine. Non sarebbe affatto male l'averci una torbida storia di sangue e sesso con lei, dove io mi fingo in rotta col Movimento e mi spingo ai sacrifici umani; poi, invece, riprendo in mano tutta la mia umanità e riesco a convertire i Pagani a una visione diversa di noi Fratelli e a guidare un nuovo Movimento contro l'Invictus proprio sotto gli occhi... Ma cazzo quella è Chichi!
L'aveva vista, la stava vedendo. Lui era sotto le volte dei Tre Archi, lei poco distante, vicina all'angolo dell'edificio immediatamente successivo. Lei guardava verso di lui e gli si avvicinava.
Stefano distese il viso nella sua espressione 'sono figo e lo so, non guardarmi con quegli occhioni' voltando il mento in basso verso destra, senza però perdere di vista la sua consanguinea Toreador. Ma a un tratto si rese conto che Chichi non era alta un metro e mezzo come doveva essere... E infatti non era lei. Per un secondo Stefano si sentì preso in giro e in pericolo.
“Buh!” Gli disse il vampiro che aveva scambiato per Chichi. Stefano sbuffò e si crucciò; il soggetto in questione era un tizio alto uno e ottanta ben piazzato, il muso perennemente deformato dalla smorfia della Bestia, tanto che era un'incarnazione della tipica immagine dei vampiri passata alla televisione: capelli ispidi ritti in testa, le ossa delle arcate frontali pronunciate, saldate in un tutt'uno con il naso, mascella spessa e sporgente, zanne che non si ritraevano – un vampiro andato in Frenesia una volta senza più tornare indietro, un Nosferatu, un compagno Carthiano: Anchise. E che cazzo ci faceva qua?
“Anchise, che cazzo fai qua?”
“Giricchio, i'l poss' fa'”, se Asclepio parlava in dialetto per comodità, Anchise lo esibiva con pari orgoglio delle sue sembianze mostruose, decantando il donca nella sua versione più genuina e rapida. A volte era quasi incomprensibile: “Tu che st'a fa'?”.
Stefano si fece evasivo: “C'ho da gì su dal Vescovo”.
“Ah, pella cosa de la Scorza ve'?”
Stefano annuì senza domandarsi come mai Anchise sapesse già tutto, tuttavia controbatté: “Ma tu?”
“I', io me fo'n giretto, n'se pô fa'? E che sol'Argo pole? Gl'ho 'mparato i'a nascondese”
“Seh, vabè. Sent' i'vô che quello m'aspetta”
“Va' va', c'ho da fa'”
Anchise era sempre uno che 'c'aveva da fa' '. Stefano non sentiva quasi mai altre parole provenire dalla sua bocca di Bestia. Che fosse un Nosferatu impegnato si sapeva; Anchise era quello che gestiva l'espansione urbanistica di Marsciano e i fondi dell'ospedale. In pratica era il 'Tesoriere' del Movimento, ma Stefano obiettava sempre sul fatto che il compagno non faceva mai menzione di spiegazioni su quello che faceva, così come evitava accuratamente di tirar fuori un euro che fosse uno. Se la stronzaggine era uno dei tratti tipici di certi perugini, Anchise ne era un esempio.
Stefano proseguì per la via, ma volle togliersi lo sfizio di cercare di capire dove stesse andando Anchise. Sapeva bene che dopo il loro rapido incontro l'Infestatore sarebbe sparito alla vista di tutti, ma non alla Vista.
Seppure Basile non possedesse che i primi rudimenti di questo Potere del Sangue, si concentrò per penetrare il gioco di ammaliamento del Nosferatu. Con la coda dell'occhio riuscì a distinguerlo come una specie di ombra sfuocata che filava diritta e celere dentro il 'Busker', un pub dirimpetto ai Tre Archi.
Il Busker? Ma il Busker è un posto assegnato!
Stefano non si ricordava a chi fosse assegnato, non aveva con sé l'elenco della ripartizione dell'Acropoli, ma certamente non era stato dato a un Carthiano.
La cosa era strana e, maledizione, non c'era tempo per approfondire. Era sempre più in ritardo.
Cercando di sbrigarsi Basile attraversò l'Acropoli fino in fondo, girò intorno alla Colonna (e pure questa era una cosa che non aveva mai capito) e infine arrivò al Rione di Porta Sole. Il Vescovo lo aspettava in un palazzo di fronte alla biblioteca comunale, la 'Biblioteca Augusta' (per i vampiri questo aggettivo era un'incombenza ricorrente), in un appartamento sopra a un altro locale, di nuovo un pub con nome 'Il Birraio', specializzato nel servire birra prodotta artigianalmente (neanche a dire che l'appartamento e il pub erano connessi da un rapporto tra predatore e territorio di caccia).
Basile venne accolto da un Mezzosangue Asservito che lo fece attendere pochi minuti (a quanto pare sua Eccellenza aveva veramente un impegno, altrimenti l'attesa sarebbe risultata cinque volte il tempo del ritardo che aveva accumulato).
Vincenzo Monteleoni era uno di quei Fratelli che faceva pensare a Basile: ma se uno vuole rendere un altro Immortale, non è meglio se lo Abbraccia da giovane? Infatti Monteleoni era un bell'uomo dai capelli grigi sospeso per sempre tra i quaranta e i cinquant'anni. Era il capo della Lancea Sanctum, il padre spirituale di tutti i vampiri (Augusto permettendo) e capo politico della congrega che concepiva il Requiem dei Dannati come una missione religiosa (Augusto permettendo? Non si sa). Indossava un completo nero e una camicia bianca senza cravatta (no, niente paramenti sacri, tonache e collarini bianchi; all'Augusto non piacevano e solo il Frate lo sfidava col suo cilicio centenario).
Basile si sedette al lato opposto di una scrivania da prelato (quella sì che era intonata) e a quel punto avrebbe dovuto iniziare a far la Succube. Tuttavia il pensiero di trovarsi faccia a faccia con un Ventures dai famigerati poteri di intrusione nella mente altrui lo bloccò. Pensò che c'erano minori possibilità di farsi manipolare il cervello se avesse dimostrato di sapere che non avrebbe avuto speranza se avesse tentato di usare la sua Maestà, e poi sentiva forte sopra di sé l'incombere della Bestia di Monteleoni che era più grossa della sua. Non si sentiva affatto sicuro delle sue capacità.
Basile iniziò a spiegare il motivo della sua presenza lì; sapeva che sua Eccellenza sapeva, ma seguire le regole doveva avere il suo ritorno. Monteleoni, però, lo interruppe a metà e gli chiese cosa avevano scoperto laggiù all'ospedale.
“Nient... È ancora presto per dirlo... Abbiamo molte ipotesi”, rispose Stefano.
Monteleoni lo fissò, Basile cercò di evitare l'incrocio di sguardi senza darlo a vedere.
“Se le vostre ricerche non hanno portato a risultati, dunque è bene che ci riprendiamo il cadavere indietro”, disse Monteleoni.
“Non abbiamo ancora terminato”, rispose Basile cercando di fare l'equilibrista.
“D'accordo, sbrigatevi allora”, replicò Monteleoni annuendo e poi congedando la Succube.
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